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. NICOLAS MARTINO - In queste settimane su OperaViva stiamo pubblicando le immagini di alcune azioni e mostre pubbliche collettive, la serie N.d.R., gli Avvisi alle popolazioni, e in particolare alcune opere di Carmelo Romeo e Luciano Trina che a quelle iniziative parteciparono o che organizzarono direttamente. Protagonisti di un percorso artistico e politico particolarmente interessante, che qui proviamo a ricostruire, li abbiamo intervistati. . NM.1 - Se nel presentarvi dicessi che siete artisti sareste d'accordo? Ovvero vi riconoscete nella definizione di artista, e che cos'è per voi un artista?. R – Ci metti in difficoltà, tenuto conto che una delle prime cose che abbiamo realizzato è stato un timbro con il quale annullavamo i nostri dati anagrafici trascritti in certificati e carte di identità, e naturalmente tra questi dati da disconoscere era incluso pure quello della “professione”. . T – Se però ti viene facile puoi definirci anche artisti. Terremo presente che in questa circostanza non è una provocazione o un insulto, e serve a ricordarci che viviamo la divisione sociale del lavoro e la spartizione diseguale delle risorse. . R – Questo concetto lo hanno espresso meglio i giovani americani di Occupy Wall Street, che non sono comunisti ma solo pragmatici e non ideologizzati come i vecchi europei. Tieni conto che noi rovesciamo la visione corrente che vuole che ogni periodo storico trovi la propria espressione attraverso uomini “illustri”, e adottiamo quella precisamente contraria per cui ogni periodo storico produce uomini più o meno dotati di talento. Giusto per tirar via, possiamo dire che la diversità fra la scultura di Policleto, Antelami, Michelangelo, Thorvaldsen o Brancusi, non è altro che la diversità fra le epoche nelle quali essi vissero. Ma oggi l’artista è così vecchio che tanto oramai l’arte si fa da sola, come i sentieri nei giardini di Kensington. . NM.2 - Siete marxisti? Avete militato anche in qualche gruppo politico organizzato? . R - Preferiamo riferirci a noi stessi come comunisti, anche se è diventata una parola imbarazzante. Ma siamo su un terreno che richiederebbe troppe precisazioni teoriche e storiche che ci porterebbero in posti frequentati da pochissime persone, e quasi nessuna affetta da “creatività artistica”. Per venire invece a chi se l’è presa, ognuno di noi due e di quelli con cui abbiamo lavorato avevano posizioni differenti da rivendicare, raccolte tutte in quella nebulosa che, giusto per capirci, diciamo di sinistra. In quella confusione teorica, credo che noi siamo partiti con in tasca forse solo una fin troppo facile parafrasi da Marx, per le quale gli artisti avevano finora rappresentato in vari modi il mondo, si trattava invece di trasformarlo. Ma la rivoluzione non è frutto della volizione, e la trasformazione è affidata all’agire di una forza storica reale e materiale, non certo a prassi artistiche o all’immaginazione. La nostra concezione considera l’arte strettamente legata ed inseparabile dall’intera produzione della vita materiale; la sua propria storia è solo una specifica manifestazione, un aspetto del modo di vivere delle società umane. E se il modo di vivere diventa incerto e confuso e la vita stessa perde di senso, anche le cose e la loro produzione perdono di senso. Allora si tratta di capire il verso di queste perdite, il retro e la sua direzione futura. Così, dopo tanti anni, possiamo anche riconoscere di non aver fatto altro che mantenere il punto, e prendere atto che questo era precisamente ciò che dovevamo fare su di un terreno ingombro di strascinamenti estetici pervasi dall’ideologia dominante e impeciato di falsificazioni storiche decorate a più mani. . T – Comunque, se vuoi sapere se noi due siamo mai stati iscritti, simpatizzanti o espressioni di qualche partito, parlamentare o extraparlamentare, la risposta è decisamente negativa. Negli altri con cui abbiamo lavorato finora, si potevano registrare dei tratti nichilisti o anarchici, o erano assidui di gruppi operasti extraparlamentari; c’erano fuoriusciti del Manifesto ed elementi internazionalisti; alcuni, ispirati dal gramsciano “intellettuale organico”, erano vicini al partito comunista di allora o al sindacato scrittori. Insomma, stavamo tutti nel paniere assortito dagli anni ’70, ma quelli attuali non mi sembrano meno confusi. . R - Se sul versante politico non esistevano i presupposti per un unico orientamento, sul versante artistico si era tuttavia polarizzata la possibilità di una “intesa” operativa tra elementi di una certa area politica. L’appartenenza partitica era un dettaglio personale che non impediva a ciascuno di rappresentare uno specifico nodo operativo in una rete di lavoro costituita da legami forti e deboli che si attivava per concretizzare determinate iniziative pratiche o elaborazioni teoriche. Ma a questa descrizione sintetica della situazione in cui operavamo allora siamo arrivati solo da poco tempo; prima si dovevano spegnere tutti gli ardori giovanili degli anni ’70, e poi ancora attendere che venisse la tecnologia a darci una mano fornendoci, con il modello e i termini per riconoscerla, anche la forma per risolverla. . MN.3 - Nel 1970 fondate il «non gruppo Erostrato» che rimane attivo fino al 1975. Perché il riferimento al noto incendiario greco, e qual era l'impostazione del lavoro che portavate avanti? . T – Ricordo che all’epoca si parlava di “committente di riferimento”; la cosa ci divertiva perché dimostrava che gli artisti non riuscivano proprio a fare a meno di un Principe personale, e per lavorare se ne dovevano trovare per forza uno, a costo di andarselo a prendere nel loro cervello. Allora, se ne poteva anche immaginare uno che era andato per le spicce, come ad esempio Erostrato. . R – La tradizionale sentenza che ha trattato Erostrato come un criminale che voleva immortalare il proprio nome nella storia, quadra troppo con il radicato senso di venerazione verso l’arte e l’individualismo di epoche più recenti per non diffidarne. Erostrato ci è piaciuto vederlo come un pastore che sulla spianata del tempio voleva solo farci pascolare le pecore, da sacrificare magari agli uomini, mai più agli Dei; un rivoluzionario, insomma, cioè un demolitore di forme. E così, con l’aggiunta di Erostrato ai classici Prometeo e Spartaco guadagnavamo l’iconoclastia e il proposito di procedere fino a criticare noi stessi. Ma intanto bisognava avere tra le mani l’oggetto su cui esercitare l’analisi, e allora uno ci provava con la pittura o la scultura. . MM.4 - Qual era, soprattutto a Roma, la scena dell'arte negli anni 70, e come vi collocavate singolarmente e come gruppo rispetto a essa? . T - C’era chi orbitava attorno alla Tartaruga, all’Attico di Sargentini o alla Salita di Liverani. Poi giravano ancora quei pittori sindacalizzati che facevano del realismo in onore dei partiti socialisti o comunisti nazionalpopolari, e che dopo il ’68 pensavano di aver ancora qualcosa da dire anche da morti. Tutti indistintamente restavano attenti agli spifferi delle segreterie politiche. Nomi e vicende sono noti. Anche se molto di tutto questo si svolgeva nell’area di Piazza del Popolo, dove alcuni di noi vivevano, ci si poteva pure incontrare casualmente, poi ognuno tirava via. . R - Non si può dire, e non l’abbiamo mai detto, che eravamo un “gruppo” per come lo si intende comunemente. Eravamo in cinque, una specie di pattuglia che si era aggregata per caso e che procedeva senza collegamenti. Ognuno metteva in comune con gli altri le risorse di cui disponeva, sia teoriche che lavorative; sulle prime guardando particolarmente al Suprematismo o al Costruttivismo e anche alle correnti più attuali, poveriste o concettualiste. Non abbiamo mai buttato via nulla per principio. . T – Per vivere facevamo dell’altro e quindi non stavamo lì ad escogitare strategie per procurarci delle referenze. E’ stato ancora il caso e qualche circostanza un po’ forzata a fare incontrare la nostra autonomia, ad esempio, con Nancy Marotta, con con Fabio Mauri o con Tullio Catalano; la nostra continuità con Cesare Pietroiusti, con Lucrezia de Domizio o con Dora Garcia. . MN.5 - Oltre che con l'«Ufficio per l'Immaginazione Preventiva» avete avuto rapporti, per esempio, con gli Incontri Internazionali d'arte di Palazzo Taverna organizzati da Graziella Lonardi Buontempo e Achille Bonito Oliva? . T – Abbiamo avuto ben altro che dei semplici rapporti con gli Uffici, e fin dalla loro costituzione, se non addirittura prima che si formassero sulla base di una ispirazione marxista, in noi preesistente. L’idea di aprire degli “uffici” richiamava infatti quell’Ufficio di Corrispondenza fondato nel 1846 a Bruxelles da Marx e Engels allo scopo di creare una rete di lavoro, e già questo rispecchiava i nostri stessi intendimenti. . R – Con gli Uffici si presentava quella vocazione organizzativa che alcuni dei suoi elementi, soprattutto Tullio Catalano, traevano dal Surrealismo, e che da loro veniva resa con la formulazione concisa di alcuni proponimenti estetici dalle valenze operative; concetti come “immaginazione preventiva”, e denominazioni come “Società per Azioni” o Imprinting, non potevano mancare di suscitare il nostro interesse. Oggi posso dire che si anticipava in qualche modo quella prassi artistica che solo recentemente viene chiamata “relazionale”. Con gli Uffici la forma organizzativa stessa intendeva presentarsi come compiuta forma estetica; e ritengo che questo sia stato il loro contributo più interessante e significativo, il resto è secondario. Come del resto è secondario tutto ciò che abbiamo fatto e facciamo noialtri rispetto alla messa in opera di Forniture Critiche. . T - Riguardo agli Incontri Internazionali, facemmo pure una mostra come Area Operativa di Base nel corso di una rassegna del Centro di Informazione Alternativa di Achille Bonito Oliva. Tramite alcuni elementi degli Uffici non eravamo estranei a quell’ambiente. . MN.6 - Nel 1973 si tiene «Contemporanea» a cura di Achille Bonito Oliva nel parcheggio di Villa Borghese, una mostra che voleva documentare anche la scena alternative e militante dell'arte. Voi vi avevate preso parte? Qual era il vostro giudizio su quella mostra? . R – Achille Bonito Oliva non si curò né di noi né degli Uffici. In occasione dell’inaugurazione di Contemporanea noi ci limitammo a inviare per posta dei comunicati e a far circolare e diffondere un Certificato per il superamento dei limiti da Stato e di Storia, di cui solo Berenice (una popolare redattrice di Paese Sera) ne rese conto. Probabilmente Achille diffidava dei personaggi, e forse solo in seguito ebbe qualche ripensamento, come si indovina dalla sua successiva attività agli Incontri Internazionali. . T – In quell’articolo di Berenice, più lungo dei suoi soliti, mi pare ci fosse anche qualche considerazione interessante; ma non abbiamo più la pagina, che forse dovremmo proprio recuperare dall’archivio dell’Emeroteca di palazzo Mattei. Che dire infine di Contemporanea e di Achille? Una bella pensata. . MN.7 - Negli anni '70 avete collaborato anche con Fabio Mauri, c'era una affinità nelle vostre rispettive ricerche? . T – Per diverso tempo avevamo prodotto manifesti in sostegno delle lotte sociali e in particolare del movimento per l’occupazione delle case, e Fabio Mauri, su indicazione di Gino Marotta, ci chiese se potevamo fare anche per lui delle serigrafie. Erano i primi mesi del 1970, noi stavamo preparando la mostra Appunti per Erostrato, ma accettammo di stampare delle grandi serigrafie su tela olona colorata che vennero montate su telai per allestire lo spazio di Fabio Mauri alla mostra Amore mio a Montepulciano. . R – In seguito con Fabio ci fu una frequentazione abituale e spesso parlavamo del rapporto tra arte e politica, un argomento verso cui si mostrava sempre più interessato. A me del suo lavoro interessavano di più i suoi “schermi”; e difatti dopo qualche tempo gli consegnai uno studio che riguardava la superficie in pittura e lo schermo, di cui persi quasi memoria finché non lo rividi pubblicato venti anni dopo, nel catalogo della sua mostra alla GNAM del 1994. Non so neppure se quel mio studio fosse stato capito, perché Fabio traduceva tutto in impegno civile, in testimonianza morale e storica, mentre tra noi circolavano anche orientamenti analitici e concettuali. . T – Una volta ci disse che una giovane critica d’arte, incontrata durante l’inaugurazione della mostra Ebrea alla Salita di Liverani, gli aveva chiesto chi fossero gli artisti che lui teneva in maggior considerazione; e quando Fabio indicò noi e i componenti degli Uffici, il commento che seguì non fu proprio dei migliori. Probabilmente lei si aspettava di sentire da Mauri dei nomi più venerabili. . R – Credo proprio che le affinità con Mauri, se ci sono, vadano cercate in una comune concezione dell’arte come prassi sociale e conseguente “preder partito”. Detto così è troppo generico, e non si può comprendere il rapporto che avevamo con Fabio se si trascura, oltre alla stima reciproca, la vicinanza umana e amicale che aveva stabilito specialmente con alcuni di noi. . MN.8 - Nel 1972 organizzate alla galleria Mana di Nancy Marotta «Germinale», una mostra accompagnata da una lettera «Sulla mercificazione dell'opera d'arte», indirizzata a un critico d'arte dal nome, così dicevate, ormai dimenticato? Era indirizzata a un critico in particolare o alla critica in generale? Quali sono stati i vostri rapporti con i critici d'arte, e per esempio con Filiberto Menna? . R – Quella lettera è stata proprio una riflessione in risposta ad una reale conversazione avuta con un critico, di cui veramente ho dimenticato il nome, che ci imputava l’incongruenza di essere “comunisti” che però producevano delle “merci”. Riletta oggi in quella lettera si potrebbe precisare qualche passaggio, ma sostanzialmente regge ancora. . T - In genere il rapporto con i critici è stato sporadico e accidentale. Tullio Catalano avrebbe potuto rispondere più dettagliatamente a questa domanda. Lui stesso era stato per diverso tempo un critico attivo e conosceva tutti i critici “militanti”, come si diceva allora. Aveva anche affiancato Politi per far nascere Flash Art, e per le nostre iniziative metteva in movimento un po’ tutto l’ambiente. Noi lasciavamo andare le cose per il loro verso, così capitava pure di rimanere sorpresi quando qualche critico d’arte citava il nostro lavoro in un articolo o in un libro. Una qualche attenzione ci riservavano Filiberto Menna e Alberto Boatto, Achille Bonito Oliva, Bruno Corà, e pochi altri. Comunque sia andata, credo che noi e gli Uffici dai critici non abbiano ricavato molto di più che spunti occasionali per qualche buona riflessione. . R – Tuttavia, sono ancora convinto che Menna in uno scritto del 1980 ci riservò una piccola stoccata, che purtroppo rimase senza replica. E lo dico così, tanto per dire che non c’era poi tutta questa la voglia di andare a fondo, quanto quella di andare avanti. Detto questo, è da ritenere che le ridotte relazioni e i quasi inesistenti dibattiti con i critici o artisti locali e nazionali, hanno favorito una certa separatezza che ci risparmia la sentenza analoga a quella che Nizan indirizzava ai filosofi, per la quale gli artisti finiscono sempre per lasciar intravedere le persone con cui bazzicano. Sicuramente questo distacco non era preso in nome di un qualche principio, semplicemente risultava esserci, e basta. Sto anche pensando che deve certamente essere sintomatico il fatto di non avere da parte quasi nessuna foto di noi assieme ad altri o in certe situazioni. Ma questo vuol dire che proprio non ci pensavamo a farle o a farcele fare, non eravamo mica Gilbert & George. . MN.9 - Il rapporto tra arte e mercato è un rapporto conflittuale? Sottrarsi alla cattura del mercato può significare mettere in atto un'opera di sottrazione e smaterializzazione dell'opera? . R – Nessun conflitto; specialmente oggi che forse solo ricorrendo all’adozione di vistosi anacronismi tecnici e istituzionali si può ingannare il pubblico d’essere davanti ad un’opera d’arte piuttosto che ad una sua caricatura che darà del filo da torcere agli archeologi del futuro. Ma questo per noi è un gran risultato raggiunto dal cammino dell’arte, e dimostra che quella vecchia talpa della rivoluzione continua a scavare bene anche sotto i piedistalli dei feticci culturali. La volontà, poi, di sottomettersi o di sottrarsi al mercato, di materializzare o smaterializzare l’opera, non conta nulla per il semplice fatto che tutto questo si è già realizzato ed è in atto, anche se nessuno ancora se ne capacita e tiene d’occhio le apparenze che non coincidono mai con i fenomeni reali. E l’opera d’arte attuale è più un epifenomeno che altro. . T - Ma cosa vuoi che importa se uno fa o non fa, aggiunge o sottrae un prodotto, sia pure pomposamente definito artistico, quando ci sono depositi chilometrici di merci invendute e flotte di cargo giganteschi che non trovano più un molo dove scaricare container ricolmi di prodotti high tech che nessuno compra. . R - Giravolte politiche o economiche e trovate estetiche che credono di poter incidere con la volontà sul processo storico per modificare lo stato attuale, sono tutte manifestazioni reattive al marasma sociale in cui ci troviamo, ne vediamo gli aspetti e ce ne terrorizziamo. Certamente questo produce anche interessanti tentativi pratici per resistere, ma è altrettanto certo che neppure la loro somma basterà per uscirne. Ma, poiché ci siamo detti rivoluzionari, dobbiamo dirci anche ottimisti di venirne fuori. . T – Decisamente, se l’artista è troppo vecchio per l’arte, anche la sua opera lo è. Detto questo, dopo che si sono capite certe cose uno è libero di fare o di non fare, materializzare o smaterializzare tutto ciò che gli pare e piace, visto che questo è proprio ciò che il capitale ha sempre fatto con tutte le cose degli uomini, che oramai gli sono proprio totalmente indifferenti. . R – Non ci piace affatto parlare in certi termini, e specialmente in questa occasione. Ma nel quadro d’insieme non poteva mancare una tensione che a volte raggiungiamo involontariamente anche nelle riunioni con altri gruppi di lavoro con cui ci colleghiamo settimanalmente tramite skype. . MN.10 - Sempre nel 1973 nasce, dall'ex «non-gruppo Erostrato» la «Frazione Clandestina». Se non sbaglio si trattava di un gruppo interno all' «Ufficio per l'Immaginazione Preventiva» (fondato da Maurizio Benveduti, Tullio Catalano, Giancarlo Croce e Franco Falasca). Ci potete spiegare meglio in cosa consisteva l'attività della «Frazione Clandestina» e come funzionavano i rapporti con l'«Ufficio per l'Immaginazione»? . R – La Frazione Clandestina si forma del tutto unilateralmente come un preventivo Ufficio (clandestino) per l’immaginazione (clandestina) operando autonomamente dagli altri Uffici, con i quali tuttavia collaborava. . T – Praticamente la Frazione Clandestina si avvia diffondendo per posta tutta una serie di Informative politiche, proseguendo quell’attività di mail-art avviata dagli Uffici con l’iniziativa di S.p.A.. Ha poi affiancato altre iniziative degli Uffici, come gli interventi per N.d.R. e i quaderni di Imprinting. Del tutto autonomamente la Frazione realizzò degli incontri pubblici sulla Geometria della Gediqureusi, organizzò delle proiezioni su richiesta di pellicole e nastri RVM, coordinò gli incontri di lavoro comune nel Convento Occupato e fondò la rivista Aut.Trib.17139, supportata da elementi provenienti dalla rivista La Comune e dall’Ufficio di Tullio Catalano. . R – Comunque per noi due la Frazione è soprattutto una linea ostinata che ci collega idealmente al nostro Erostrato del 1970, nella quale far convergere ogni iniziativa, comune o individuale, svolta prima di costituirci come Forniture Critiche nel 2004. . T - Nel nostro sito credo ci sia tutto quanto è necessario per ricavare un quadro chiaro delle vicende. Della parte che riguarda gli Uffici dobbiamo dire che al momento di costituirci come Forniture Critiche, ed in seguito, l’unico superstite degli Uffici iniziali non rispose all’invito di partecipare o collaborare al sito e, per quanto disponibile, provvedemmo noi a sistemare la loro documentazione. . MN.11 - È all'interno di questa collaborazione che partecipate a «N.d.R.», un'iniziativa voluta da Maurizio Benveduti e Tullio Catalano: una serie di opere di artisti diversi che si succedono su un cartellone pubblicitario a Porta Portese, un progetto a lungo termine, iniziato nel 1973 e conclusosi nel 1979, al quale hanno partecipato tra gli altri Shusaku Arakawa, Gabor Attalai, George Brecht, Giuseppe Chiari, Claudio Cintoli, Francesco Clemente, Fernando De Filippi, Robert Filliou, Gerz, Peter Hutchinson, Vettor Pisani, Terry Smith e Jlia Soskic. Ci potete dire qualcosa in più sulla vostra partecipazione e sul progetto in generale? . T – Ci rattrista che a questa domanda non possano più rispondere né Tullio né Maurizio; e noi non ce la sentiamo di aggiungere parole a quello che loro hanno già detto al proposito e riportato nel nostro sito. Posso tuttavia dire che il mio intervento sul cartellone N.dR. fu un’affermazione contro l’indifferenza. . R – Detto così semplicemente sembra riduttivo e invece è efficace; e forse è anche una frecciata alla mia petulanza, che però non cede. A me interessava contrapporre, alla visione gradualista dello sviluppo storico, una visione catastrofista desunta dalla teoria del matematico René Thom. Sul cartellone di N.d.R. l’immagine dei due grafici e della didascalia, che si poteva leggere solo avvicinandosi, non favoriva certo all’efficacia dell’affissione; ma questa conta in parte. Ciò che importa del funzionamento di un metodo o di un sistema, sociale o termodinamico e forse anche estetico, è il rendimento. Così ho inseguito il rendimento di quell’immagine, riproponendola in periodi diversi agli Incontri Internazionali o in Aut.Trib. 17139 e in altre occasioni più recenti, per metterla in salvo dalla provvisorietà delle circostanze espositive. > |
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. T – In effetti i lavori affissi dai vari autori sul cartellone di N.d.R. erano tutti degli originali “a perdere”; e questo solo fatto, al netto di ogni altra considerazione, sistemava le nostre due affissioni sotto la costellazione di Erostrato e in linea con la Frazione. Stampa PDF |
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